sabato 26 dicembre 2009

Haiku


Cielo, mare,
notte: tutt’uno nero.
Già albeggia.

Haiku


Foglie d’autunno,
toni autunnali.
È qui, l’autunno.

Haiku


Candido fiocco
tacitamente cade,
si posa: è qui.

Haiku


Su di noi stelle,
tanto cielo immenso,
qui tu e la sera.

Haiku


Nave nel mare,
planetario di luci,
notte oceanica.

sabato 25 ottobre 2008

Il concerto per violino e orchestra in mi minore, Opera 64, di Felix Mendelssohn Bartholdy


Il primo tempo è profondamente triste. La tristezza – così familiare – si esprime nel tema orecchiabile; spesso semplice e spontaneo, ma mai banale. Il violino esprime i moti dell’animo caduto in una profonda mestizia. Questo sentimento, intimamente sofferto, trova la sua piena espressione nel dialogo costante con l’orchestra. La suggestione è coinvolgente. A tratti si rasenta il lamento, a tratti affiora l’incontenibile bisogno di pianto. È lo sconforto. L’orchestra risponde sulle stesse emozioni, empaticamente. Non ci sono tentativi di consolazione. C’è piena partecipazione, condividendo la stessa situazione. Questa tristezza pare non trovare via d’uscita. Vengono esplorati tutti i meandri che essa stessa si scava, toccando culmini di disperata sofferenza.
Neppure nel secondo tempo si trova pace. C’è, anzi, una depressione. La tristezza diviene ancor più profonda e inconsolabile. Il lamento lascia il posto all’afflizione. Tutto diviene più cupo. La capacità di reagire è svuotata.
Nel terzo tempo c’è l’immancabile ripresa: l’animo ubbidisce all’imperativo impulso di sopravvivenza che sale da dentro. Come spesso accade quando si è toccato il fondo, basta poi un pretesto per rispondere all’accenno di un sorriso, pieno di comprensione, che ci viene rivolto. Ci si aggrappa allora al nuovo e salvifico stato d’animo. Quasi autoironicamente affiora un atteggiamento nuovo. Questa vena che sa di buono ci sorprende e ci seduce. Fa bene all’animo. L’orchestra coglie al volo l’attimo favorevole, e – come un amico che sa dare una pacca sulla spalla nel momento giusto – dà lo spunto al violino per uscire dal vicolo cieco della sua malinconia. L’autoironia diventa facile. Il violino cede allora al bisogno di recupero, abbandonandosi alla insperata e imprevedibile letizia, che – un po’ nervosa, per reazione, all’inizio – diventa quasi incontenibile e lo conquista. Lo stato emotivo si placa: la serenità è raggiunta. Non è la gioia di un momento. È la pace consapevole maturata dopo l’esperienza sofferta. Ora c’è equilibrio e stabilità. È l’appagamento dopo la ritrovata via d’uscita. È la libertà e la pace conquistata che non ha però dimenticato ciò che ha sofferto. La profonda tristezza è stata esplorata, vissuta, fatta propria; è divenuta nutrimento per la crescita di sé. L’io ne esce rafforzato. Il nuovo modo di essere è stato arricchito da quella sofferenza. L’io-violino la porta ancora in sé, ma ormai superata. Sa ora guardarla con distacco. Non la rinnega, ma è solo un ricordo nella sua nuova e positiva visione delle cose. Ecco che allora il tema musicale della tristezza iniziale si riaffaccia - per un momento - proprio in chiusura. Ma non sconvolge più: lo si rammenta con un sorriso, guardando avanti, attratti dalla grandiosità della vita.

domenica 21 settembre 2008

Omaggio a Etty


Esther Hillesum, detta Etty, nacque nei Paesi Bassi nel 1914. Era ebrea. Etty aveva 29 anni quando morì il 30 novembre del 1943 ad Auschwitz. Il 3 giugno di quell’anno era rientrata volontariamente nel campo di concentramento di Westerbork, rifiutando la possibilità di salvarsi nascondendosi. Dal treno con cui i nazisti la trasferivano da Westerbork ad Auschwitz il 7 settembre del 1943, Etty lanciò una cartolina indirizzata ad un’amica, poi ritrovata lungo i binari e spedita. Era il suo ultimo scritto: “Christien , apro la Bibbia a caso e trovo questo: ‘Il Signore è il mio alto ricetto’. Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure. Alcuni amici rimasti a Westerbork scriveranno ancora ad Amsterdam, forse avrai notizie? Anche della mia ultima lettera? Arrivederci da noi quattro. Etty”.
Il 13 marzo del 1942 aveva scritto su un quaderno: “Rainer Maria Rilke, anche se tu non sei più in questo mondo, proprio per questo vorrei scriverti delle lunghe lettere. Tu sei sempre vivo. Ospitare l’altro nello spazio interiore proprio e lasciare che si dilati, conservagli un posto in noi, in cui possa maturare e dispiegare la propria potenzialità. Quand’anche non ci si veda per molti anni, vivere proprio con l’altro. Concedere che perseveri a vivere in noi e vivere con lui, per me è l’essenziale. In questo modo si continua a procedere con qualcuno, senza che gli eventi della vita travolgano… quando si ama veramente, allora bisogna essere capaci di soffrire. In altro caso l’amore non sarebbe autentico”.


Etty, prendo a prestito le tue parole. Le faccio mie. E le rivolgo a te.
Etty, anche se tu non sei più in questo mondo, proprio per questo vorrei scriverti delle lunghe lettere. Tu sei sempre viva. Ti ospito nel mio spazio interiore e conservo in me un posto per te, un posto molto importante. Ho imparato a vivere con te. In questo modo procedo con te, Etty.
Ci sono rimasti, Etty, le tue lettere e il tuo diario. Me ne nutro quotidianamente. Rivivo con te le tue sensazioni, le tue emozioni, le tue intuizioni. Uso le tue espressioni, quelle tipiche di te, come: “Tutto va sempre avanti, e perché no!”, “E ho pensato: Anche questo va bene”, “E intanto la mia vita continua”, “E si deve pur continuare ad andare avanti, a essere produttivi”, “E ora al lavoro”, “Ecco, ora posso dormire in pace”, “Domattina mi alzerò presto e me ne starò un pochino a questa scrivania”, “Sì, ce la caveremo”, “Sono così riconoscente”, “Questa vasta giornata è tutta mia: scivolerò in essa molto dolcemente, senza nervosismo e senza fretta”. Tra le tue frasi tipiche che preferisco, questa la ripeto ogni sera prima di dormire: “Domani è una nuova giornata, da vivere in pienezza”.
Alcune delle tue frasi, Etty, le conservo in un quaderno mio, come facevi tu con le frasi che amavi di Rilke, di Jung, di Dostoevskj, di Agostino, di Puškin, degli Evangelisti. Coltivo le stesse buone cose che tu coltivavi, perché le amo anche io e perché fanno bene anche a me. Sento mie le tue parole: “La musica mi tocca sempre molto se mi capita di ascoltarla. La mia attenzione andava sempre alla letteratura e al teatro, cioè ai campi in cui io posso continuare a pensare: ed ecco che ora, in questa fase della mia vita, la musica comincia a far valere i suoi diritti, e io sono di nuovo in grado di abbandonarmi a qualcosa e di dimenticare me stessa. Sento soprattutto il desiderio dei classici puri e sereni, non di questi tormentati moderni”.
Ti capisco perfettamente, Etty, quando scrivi: “Questa mattina mi sono proprio guadagnata questa gioia interiore, ho dovuto lottare contro l’irrequietezza del mio cuore. Mi sono lavata con acqua gelida dalla testa ai piedi, e sono rimasta sdraiata sul pavimento del bagno fintanto che non mi sono sentita completamente calma”.
Anche io, come te, ho un quaderno mio. So cosa vuoi dire quando scrivi: “Devo badare a tenermi in contatto con questo quaderno, vale a dire con me stessa: altrimenti potrebbe andar male, potrei smarrirmi a ogni momento”. Mi piace da matti questa tua frase: “La concentrazione interiore costruisce alti muri fra cui ritrovo me stessa e la mia unità, lontana da tutte le distrazioni”. Il tuo desiderio io lo sto realizzando per me: “Un giorno scriverò. Le lunghe notti che passerò seduta a scrivere saranno le mie notti migliori. E allora verrà fuori tutto quel che accumulo dentro, scorrerà pian piano come una corrente senza fine”. Lo hai scritto tu, Etty: “Spesso, quando torno a casa alla sera, trovo che ho vissuto delle esperienze straordinarie durante il giorno, e allora vorrei subito scriverci su qualcosa di immortale, addirittura”.
Ho imparato e adotto la tua filosofia, Etty: “E sii pure triste, semplicemente e sinceramente triste, ma non costruirci sopra dei drammi”; “Devo fare buon uso di tutto il tempo che ho a disposizione e che non è consumato dalle preoccupazioni quotidiane, devo sfruttarlo minuto per minuto”. Sai, l’apostolo Paolo – che tu pure amavi – ha usato quasi le tue parole nel consigliare: “Usate bene il tempo che avete”. Sì, cerco io pure di fare come dici: “Ripeto ogni giorno: per oggi sei a posto, oggi non hai il diritto di perdere neanche un atomo della tua energia in piccole preoccupazioni materiali. Usa e impiega bene ogni minuto di questa giornata, e rendila fruttuosa”. Sono ancora parole tue quelle che assumo a mia filosofia di vita: “Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e ‘lavorare a se stessi’ non è proprio una forma di individualismo”. In questo anno del Signore 2008 ripeto con te: “Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra. Non riesco a trovare assurda la vita”; “Dal mio cuore si innalza sempre una voce – non ci posso fare niente, è così, è di una forza elementare -, e questa voce dice: La vita è una cosa splendida e grande”; “Ho una fiducia così grande: non nel senso che tutto andrà sempre bene nella mia esistenza, ma nel senso che anche quando le cose mi andranno male, io continuerò ad accettare questa vita come una cosa buona”. Ecco il segreto, come hai detto così bene: “Fede in Dio e capacità di vivere interiormente”.
Etty, carissima Etty, condivido con te la fede. Mi commuovono ogni volta le tue parole profondamente spirituali che può intendere solo chi ha fede vera: “Una volta che si comincia a camminare con Dio, si continua semplicemente a camminare, e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata”, “M’innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offra riparo, mi ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, ne esco fuori più ‘raccolta’, concentrata e forte. Questo ritirarmi nella chiusa cella della preghiera diventa per me una realtà sempre più grande”, “Potrei immaginarmi un tempo in cui starò inginocchiata per giorni e giorni – sin quando non sentirò di avere intorno questi muri che mi impediranno di sfasciarmi, perdermi e rovinarmi”, “Mio Dio, stammi vicino e dammi la forza, perché la battaglia si fa dura”, “Dio non è responsabile verso di noi, siamo noi ad esserlo verso di lui”, “Io guardo il tuo mondo in faccia, Dio, e non sfuggo alla realtà per rifugiarmi nei sogni – voglio dire che anche accanto alla realtà più atroce c’è posto per i bei sogni -, e continuo a lodare la tua creazione, malgrado tutto!”, “Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio”, “Ogni volta so ritrovare me stessa in una preghiera – e pregare mi sarà sempre possibile, anche nello spazio più ristretto”, “Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani. Ogni giorno ha già la sua parte”, “Comincio a sentimi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi”.
Mi identifico così tanto con te, Etty, che ogni domenica mattina piovosa (proprio come stamani) – ogni domenica mattina in cui piove; proprio in tutte, ti assicuro – rileggo quello che hai scritto una domenica mattina in cui da te pioveva, e leggendolo mi salgono agli occhi lacrime di commozione: “Vedi come ti tratto bene. Non ti porto soltanto le mie lacrime e le mie paure, ma ti porto persino, in questa domenica mattina grigia e tempestosa, un gelsomino profumato. Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino, e sono veramente tanti. Voglio che tu stia bene con me. E, tanto per fare un esempio: se io mi trovassi rinchiusa in una cella stretta e vedessi passare una nuvola davanti alla piccola inferriata, allora ti poterei quella nuvola, mio Dio, sempre che ne abbia ancora la forza”.
Etty, carissima Etty, mi colma di commozione questa tua preghiera: “Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace. Non penserò più, nella mia ingenuità, che un simile momento debba durare in eterno, saprò anche accettare l’irrequietezza e la lotta. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare al freddo, purché tu mi tenga per mano”.
Ho imparato a vivere con te. In questo modo procedo con te, Etty. Mi nutro dei tuoi scritti, Etty. Scandisco perfino il mio tempo con il tuo. Lo sai? Ho dei momenti preziosi che amo chiamare commemorativi.
Sorridi pure, ma io ogni 25 febbraio - precisamente alle 7.30 – faccio colazione con te, apparecchiando con cacao, pane, burro e miele; e una Bibbia accanto. Ti ricordi? È nel tuo diario: “Sono le sette e mezzo di mattina. …ho bevuto un bicchiere di vero cacao e mangiata una fetta di pane imburrato con miele, il tutto con quel che si dice ‘abbandono’. Ho aperto a casaccio la Bibbia ma stamani non dava risposta. Non importa molto; del resto, non c’erano vere domande da fare, c’è solo una gran fiducia e riconoscenza che la vita sia tanto bella”.
Ogni 22 luglio sera è la mia sera delle rose dopo una passeggiata, perché tu facesti così: “Dopo quella lunga camminata sono ancora andata a cercare un carretto che vendesse fiori e così sono tornata a casa con quel gran mazzo di rose”.
E ogni 31 dicembre, mentre i sempliciotti si apprestano alla solita baldoria senza senso, io sto a casa e preparo la mia semplice cena, che fu la tua: alle 20.30 metto su l’acqua per il tè. Tre pigne sono già pronte sulla tavola (non sono della brughiera di Laren, come le tue; le mie le ho raccolte tempo fa ad Olimpia, in Grecia, pensando a te). E non possono mai mancare tulipani gialli e rossi. Per me è un rito. Compio i tuoi gesti: “Ora sono quasi le otto e mezzo di sera… E se dovessi spiegare in una parola perché quest’anno è stato così buono, allora dovrei dire: per la mia grande presa di coscienza. Il che significa anche poter disporre delle mie forze più profonde. Ora mi capita di dovermi inginocchiare di colpo davanti al mio letto, persino in una fredda notte d’inverno. Ascoltarsi dentro. Non lasciarsi più guidare da quello che si avvicina da fuori, ma da quello che s’innalza dentro. È solo un inizio, me ne rendo conto. Ma non è più un inizio vacillante, ha già delle basi. Ora sono le otto e mezzo… tulipani gialli e rossi, ed ecco che spunta fuori una pasticca di cioccolato; ci sono anche tre spighe che vengono dalla brughiera di Laren. Mi sento così ‘normale’ e così bene – senza quei pensieri terribilmente profondi e tormentosi, e quei sentimenti pesanti -, proprio normalissima, però piena di vita e molto profonda, una profondità che sento pure come ‘normale’. Devo ancora ricordare l’insalata di salmone, che è pronta per stasera. E ora metto su l’acqua per il the”.
Ho imparato a vivere con te e in questo modo procedo con te, Etty. Tu scrivesti: “La strada principale della mia vita è tracciata per un lungo tratto davanti a me e arriva già in un altro mondo”. Anche la mia è tracciata. Come te, ogni tanto penso: “Mio Dio, che progetti hai in serbo per me?”. Intanto procedo, e tu mi sei accanto. Anche la mia traccia “arriva già in un altro mondo”. Non so come e dove sia. Ma ho la speranza – che si fa certezza – che tu ci sarai. Ed io sarò con te.